ANNO 14 n° 119
Livingstone in salotto Passa la palla
>>> di Massimiliano Capo <<<
08/06/2015 - 02:01

di Massimiliano Capo

VITERBO - Mi ricordo di un gioco che mi è sempre piaciuto fare.

Io, guardando la tele o leggendo un giornale ad alta voce, sbagliavo il nome di battesimo o attribuivo un’altra identità a chi in quel momento era sullo schermo (o di cui si parlava nell’articolo) e chiedevo conferma di chi fosse per esser poi puntualmente smentito con il nome corretto e allora insistevo fino a mettere in piedi una conversazione folle in cui a vincere erano sempre lui e il piano della realtà.

Tipo, ma quello è Gerry Scotti? - no, è Carlo Conti - ma no, è Gerry Scotti - noooo, è Carlo Conti, e via così all’infinito come se da questo attaccarsi alla verità dei nomi discendesse una aderenza forte e incontrovertibile con la vita, come se la parola fosse la chiave di accesso a una verità superiore, in cui i nomi sono appigli per certezze altrimenti impossibili.

Mi ricordo che ero piccolo e ascoltavamo le partite alla radio. Era l’anno del Cagliari scudettato e di Manlio Scopigno in panchina. I giornali erano di carta e lasciavano le mani nere d’inchiostro.

A Cagliari era nato un po’ per caso, nel peregrinare di un padre ministeriale dietro al suo lavoro.

Era nato così: bambino per sempre.

Perché si può esser bambini per sempre.

E può capitare che non sia una scelta e che Peter Pan non c’entri nulla.

Dopo di lui, un fratellino. Anche lui è stato bambino per tutta la vita.

Renzo Paris: ''Non sono né giovane né vecchio, sogno/come un demente, queste due età infinite,/immerso nel secchio del vino delle aurore,/ in un tempo bambino. Sono vecchio, sono/vecchio, eccomi pronto per le sterminate/eternità''.

Io sono nato e mi sono ritrovato così con due fratellini già pronti. Bambini come me che combinavano i piccoli casini di ogni infante.

E mentre io sono cresciuto, loro son rimasti sempre bambini.

Immutabili nello spirito, a cambiare solo l’apparenza del corpo.

Ora questa storia si è chiusa.

I bambini sono volati via, prima l’uno poi l’altro.

Staranno leggendo lassù, nell’ingiusto mondo di chi ci è sottratto dalla quotidianità degli occhi e del naso e della bocca e della pelle, il giornale con le mani nere, parlando di calcio e di ciclismo con i nomi di tutti gli atleti mandati a memoria, col tempo a scorrere con ritmi tutti loro, con l’oggi uguale all’avant’ieri e lo ieri proiettato nel futuro.

Con Boninsegna che ha giocato ieri in un Inter Torino e Totti che giocava trent’anni fa.

A me, quei due bambini per sempre, mi hanno insegnato a guardare al mondo con curiosità e fiducia, e con lo stupore negli occhi per ogni nuovo incontro.

Mi hanno insegnato a giocare con le parole per inventare nuovi mondi.

Mi hanno insegnato che volersi bene può davvero tutto, anche superare la linea sottile tra la cosiddetta normalità e quella che, con un termine orrendo come quasi tutti quelli politicamente corretti, chiamiamo la diversa abilità.

Che solo a sentirla dire così ti fa un po’ schifo.

Quella linea su cui tante volte mi sono fermato a pensare: tutte le volte che non sapevo spiegare come si possa essere un bambino per sempre ed essere lo stesso normali.

Cioè fare le cose, in modo originale forse, ma farle.

Tutte le volte che qualcuno ha avuto paura e io un po’ mi sono divertito a vederne la reazione e molto ho cercato di fare per spiegargli che un bambino per sempre è solo per sempre un bambino.

Non può far paura.

Ecco, io lo saluto così, con un grande ciao e tanti ricordi, e con lui saluto un pezzo della mia vita che ora sta volteggiando in cielo come un aquilone anche se di vento non ce n’è.

Poi, con quella magica armonia che tutto tiene, nello stesso giorno, ho visto GiorgiaPunk sorridere felice dopo aver cantato al saggio di fine anno e ancor più contenta rullare sui tamburi alla scoperta della musica e del ritmo.

Come a segnare col gesso bianco sulla lavagna la spunta di un passaggio inevitabile.

''In uno o in due noi siamo una cosa sola''. Così Montale.

Ed è davvero così, siamo tutti una cosa sola.





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